Breve Storia di Diego
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Ecco accontentato! Potrai leggere una breve storia parafrasata del Pibe de Oro.

IL PESO DEL DONO
Diego aveva un talento unico, ma forse era troppo per le sue spalle.
E oggi, pur riconoscendone errori e debolezze, verso di lui proviamo gratitudine e solidarietà

Un "paso atràs", un passo indietro. Poi un fulmineo "otto" disegnato in mezzo metro quadrato d'erba e lo scatto di partenza.
Ci siete? Bene, adesso fermate quest' attimo, l'avvio del gol più bello della storia del calcio, e pensate alla puntina di un
vecchio grammofono HMV che una mano posa sul disco. Cercate di ricordare il rumore, il fruscio disturbato di un solco irregolare; non si sente più quel rumore, negli hi-fi spaziali di oggi, ed è un peccato perchè certe musiche le accompagnava bene. La puntina gira fino a incontrare le prime incisioni del suono: l'attimo può sbloccarsi.

Diego Maradona ha appena ricevuto il pallone, nella sua metacampo, e con due figure del tango, "paso atràs" e "otto", s'è liberato dei primi due inglesi. Uno si chiama Reid, ha i capelli bianchi e quel giorno si sente improvvisamente vecchio, più vecchio di quando, un mattino allo specchio, notò che la sua testa non era più nera. L'altro si chiama Butcher, macellaio in inglese, e per qualche metro insegue Maradona. L'arte del calcio non è classista, un macellaio non può capire un genio. Fermarlo è un'altra faccenda. Dal tango "Pènsalo bien" di Juan Josè Visiglio, Nola Lopez e Julio Alberto.

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"Pensaci bene prima di fare questo passo / perchè quando l'avrai fatto non potrai più tornare indietro". Su un campo di calcio, specie mondiale, il pensiero è sovente un lusso; manca il tempo. Pochi minuti prima, senza pensare, Maradona ha segnato l'1-0 colpendo il pallone con un pugno. Istinto. Truffaldino. Saltando davanti a Shilton, ha portato la mano all'altezza della fronte, in ritardo con l'impatto, e ha toccato la sfera con un gesto rapace. Non tutti se ne sono accorti; fra gli ignari, l'arbitro. Già caricati dal fresco sfregio delle isole Malvinas, riconquistate a prezzo di una guerra, gli inglesi in quel momento hanno odiato l'Argentina  come si odia una volta sola nella vita, un odio assoluto e paralizzante. Hanno odiato in Maradona il trucco opposto alle loro regole; la scorciatoia, contraria alla loro strada maestra; la slealtà, opposta al loro fair play. Hanno odiato quel vento dal Sud che soffiava contro la loro fortezza, incrinandone le torri merlate.Avesse avuto il tempodi pensare, forse in Diego avrebbe prevalso la metà chiara, e lo sberleffo sarebbe stato risparmiato. Ma mentre il pallone rotola in porta oltre il braccio alzato di Shilton e un fugace sguardo di Maradona all'arbitro rivela la sua svista, la metà oscura trionfa. "La mano de Dios", avrebbe detto poi. Quasi un manifesto politico, dal meridione del mondo. Maradona, dunque non può più tornare indietro. Può solo avanzare verso un secondo gol che in qualche modo (ma quale, oltre alla bellezza?) indennizzi il primo. "Paso atràs" e "otto" hanno lasciato di stucco Reid, Butcher azzarda l'illusione di un inseguimento, la figura successiva di quel tango è la "corrida", una corsa precipitata tenendo la partner incollata a sé. La partner è la palla. Nel corso della sua vita Maradona ha tradito  tutti e da tutti è stato tradito: uomini, donne, progetti, ricordi. Lei, soltanto lei, pur beffeggiata dal sua artista, che troppe volte le preferiva altre droghe, non ha mai avuto a cuore di abbandonarlo. Da qualsiasi abisso Diego riemergesse, la ritrovava lì, docile, in attesa delle sue carezze. Poteva avere la pancia, poteva essere "fatto", era sufficiente un tocco per ricreare l'eterna magia. Quando, nel '94, Maradona corre verso la telecamera per urlare al mondo "sono tornato", la palla è sullo sfondo, dentro alla porta della Grecia. Pare sorridere. "Corrida". Svelta, lieve, decisa. Una finta ed è saltato anche Sansom, che è come se prendesse il testimone da Butcher perchè quello si ferma esausto, elui ne rileva la missione: inseguirlo. Hanno inseguito in molti Maradona, e non tutti erano avversari. L'hanno inseguito a lungo i pochi amici sinceri, per salvarlo da se stesso implorando la metà chiara, ma vedendo più spesso affacciarsi la metà oscura. A metà degli anni 70 la sua famiglia, inurbata a Buenos Aires dalla provincia settentrionale di Corientes, confine col Paraguay, sopravvive in un barrio periferico, Fiorito, dove le strade non sono asfaltate; alla festa del suo matrimonio, 1989, le molte signore presenti trovano in ogni bomboniera un anello prezioso. L'incalcolabile promozione social-economica non giustifica niente. Però spiega tanto. Maradona da grande conserva certe lealtà del bambino e la sua indole generosa resta visibile: pre gli amici può fare molto, nessun compagno di squadra, nemmeno a posteriori, ne hai mai parlato male, e quando l'Unicef gli chiede di fare l'ambasciatore dell'infanzia povera gli occhi gli brillano. Due inglesi, Stevens e Fenwick, aspettano sulla linea dell'area di rigore. Deve parer loro la bianca scogliera di Dover, e quell'argentino in avvicinamento rapido un missile diretto su Londra. L'attesa dura un lungo momento, poi Stevens alza i tacchi e arretra, pensando di conservarsi così un'estrema chance, e lasciando il solo Fenwick a preparare l'impatto. "Gancho": nel tango è la deviazione laterale ruotando su se stesso, in velocità, oltre il piede avversario proteso nel sogno di uno sgambetto. Maradona ha imparato la lezione dell'82, quella impartitagli da Claudio Gentile: se rimane fermo, un grande terzino ha i mezzi, leciti e non, per impedirgli di accendersi. Ma se riesce a lanciarsi, è troppo tardi per chiunque. Lezione di vita, anche. Bloccato nel suo letto da ogni tipo di eccesso, sente vagamente, al di là della porta chiusa, il mormorio dei compagni più amici, saliti a Posillipo per strapparlo al suo non essere: per un allenamento, una trasferta, una partita. Vorrebbe alzarsi, andarsene con loro, ma non ce la fa; non riesce ad accendersi. Dopo, soltanto dopo, si inventa le maniere più rocambolesche per raggiungerli, come quel volo privato a Mosca per non mancare in Coppa Campioni: ma il "gancho", nella vita, gli riesce ogni volta più a stento.
Penetrando l'area di rigore in diagonale, sempre braccato da Samson, vede franargli davanti Shilton in uscita, mentre Stevens s'è allargato oltre il portiere per sostituirglisi come ultimo uomo. Se questa fosse una storia romana, ricorderebbe gli Oriazi e i Curiazi, il superstite che ne uccide tre affrontandoli uno alla volta. Invece è una storia argentina, ritmata dal tango, e il fruscio della puntina diventa un sussurro regolare nell'accompagnare gli ultimi metri della grande corsa. Figlio delle influenze più diverse, dalla habanera cubana alle danze tambureggianti degli schiavi africani, alle canzonette di immigrati italiani e francesi, il tango è l'immagine di un paese scaturito da mille culture emigrate lì da luoghi lontani. Lo scrittore Ernesto Sabato descrive così le radici del suo popolo:"Gli italiani discendono dai latini, i francesi dai galli, gli argentini dalle navi". Nel Dna di Maradona c'è l'orgoglio di una patria costruita: "Hijos de puta", sibila tra i denti la sera della finale mondiale '90, quando lo stadio Olimpico, in odio a lui, fischia vergognosamente l'inno argentino. C'è l'amarezza di chi non crede a un destino salvifico: "Dimenticatemi" grida alle telecamere dopo l'arresto a Buenos Aires per una storia di cocoina. C'è la rabbia di chi si sente Sud del mondo, e dal Mondiale con la sua nazionale agli scudetti di Napoli dedica il suo immenso talento al riscatto di tutti i meridioni. E poi nel Dna di Maradona c'è l'istinto del fuggitivo. Dai galeotti che colonizzarono la Terra del Fuoco a Butch Cassidy che sparì in Patagonia per scappare alla giustizia americana, dagli Eichmann e Priebke a tanta gente nei guai ancora adesso, l'Argentina è un mondo pieno di fuggiaschi, romantici alcuni, criminali altri. E' l'istinto del fuggitivo a guidare Diego negli ultimi metri che lo dividono dal gol più bello nella storia del calcio: un altro passo di tango, la "media luna", gli viene in soccorso per dribblare Shilton senza farsi raggiungere da Samson. Pone il piede di taglio davanti al pallone, leggermente arcuato come una mezzaluna, per toglierlo dalla portata del portiere. Poi, calcolando in un baleno la velocità del recupero di Stevens, colpisce la sfera con la precisione di un biliardo, e quella passa tra l'estrema scarpetta inglese che si allunga in scivolata e la base del palo. Gol. Il Gol. Non ce n'era mai stato uno così; chissà se e quando ne rivedremo uno paragonabile. Il passo che chiude questa storia, e accompagna il Maradona trionfante verso la bandierina del corner e, qualche giorno dopo, il titolo mondiale 1986, è quello della "salida". L'uscita. L'ha provato tante volte, Diego, nei suoi periodi neri, e sempre gli è riuscito male, condannato a non poter replicare, fuori, l'abilità che dentro il campo gli veniva naturale. Ci sono due modi di guardare a Diego Maradona. Il primo, che non riesce ad appartenerci, è il giudizio di condanna per un uomo che ha avuto in sorte un dono inestimabile, il talento per entusiasmare la gente, e l'ha sperperato con una vita sciocca e amorale. Il secondo, che sentiamo nostro, non sottovaluta i suoi infiniti errori; ma li filtra alla luce di una gratitudine per le emozioni che ha suscitato e di una solidarietà umana per chi ha avuto troppo per le sue spalle, non è riuscito a reggerlo, e ne è stato schiantato. In omaggio a questo secondo modo di guardare Maradona, prima che la puntina raschi il fondo del disco, lo immaginiamo vecchio e in pace con se stesso, seduto a un tavolo del caffè Tortoni, mentre ascolta "Mi Buenos Aires querido" dalla voce di Carlos Gardel. E quando l'usignolo d'Argentina canta "no habrà màs penas ni olvido", mai più pene nè oblio, sorride come De Niro nell'ultima scena di "C'era una volta in America". Finalmente sereno.

 

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